di Titti Casiello
Quanti significati assume questa parola? Lo abbiamo chiesto ai più importanti critici gastronomici e chef dell’alta ristorazione.
Definire un cibo buono non è cosa semplice o almeno non è una cosa univoca.
Se la scuola tradizionale ci ha insegnato parole precise per raccontare la realtà attraverso termini compresi e conosciuti da tutti, quando si parla di cibo sembra, invece, che una gigantesca torre di Babele sia ricaduta su di lui.
L’impossibilità di rivendicare qualcosa di stabile e permanente ha generato un mare magnum di termini che sembrano aver svuotato di significato stesso il concetto di cibo buono.
“Come è possibile allora evocare giudizi di valore se non si conoscono i parametri di riferimento?”. È questa la domanda che per anni si è posto Roberto Rubino, Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo.
Ed effettivamente vien da pensare a quali siano gli elementi che uno chef prende in considerazione per una buona cassetta di frutta o di pesce o da quali concetti, invece, parte la stampa di settore quando giudica poi un piatto creato proprio da quello chef.
“Non esistono dei parametri oggettivi” continua Rubino e sembra che la “colpa” sia tutta della scienza che nell’affaccendarsi a definire le caratteristiche organolettiche del cibo, ha, forse, dimenticato di studiare quali fossero, però, le molecole responsabili del gusto “perché è unicamente da loro che dipende il buono in un cibo”.
“L’interesse scientifico si è quasi sempre soffermato sui solo metaboliti volatili, responsabili dei profumi, ma questi non incidono in alcun modo sulle sensazioni gustative” è, allora, a quelli, cioè ai cosiddetti metaboliti pesanti, che la scienza dovrebbe rivolgere il proprio interesse, secondo Rubino, per andare alla ricerca del gusto e offrire, così, un prontuario al consumatore o all’avventore di turno che si siede a tavola per degustare.
E, invece, continuiamo a navigare in assenza di un manuale di istruzioni per l’uso, le parole diventano modellabili, prive di un significato univoco e l’ingegno umano che inizia allora a scorrere su un campo dove nulla è definito, plasmandosi di penna in penna e mestolo in mestolo, alla ricerca delle coordinate del buono.
Come fare a trovare un’unica strada maestra? Un nuovo linguaggio costruito insieme tra scienza, ristorazione e critica gastronomica è possibile?
La critica gastronomica
È partendo da un trittico di elementi “genetica, esperienze di vita e conoscenza” che Edoardo Raspelli – conduttore televisivo, scrittore e per decenni penna arguta di molte testate giornalistiche – traccia la sua etimologia di cibo buono.
“Alla sera quando mio padre rientrava dal lavoro sapeva elencare tutti gli odori che aveva incontrato nei quattro pianerottoli che attraversa prima di aprire la porta di casa”.
Una sensibilità ereditata che Raspelli si è portato in tutti i suoi numerosi viaggi gastronomici “sviluppando il palato attraverso le esperienze e un continuo rimescolio di affondi tra i ricordi del passato e ciò che mi ritrovavo nel piatto in quel momento”.
“E’ in questo modo che ho iniziato a capire che il buono stava tutto nella semplicità” con il ricordo che va ai piatti della cucina di Gualtiero Marchesi “tra verdure appena scottate e sapori essenziali” eppure il tono inizia a farsi lieve, quasi di rammarico con la mente che corre ai tempi di oggi “che invece esaltano solo fantasie estreme. Profumi di piselli, aria di ceci, ma che senso ha? Gli chef pensano a scioccare, piuttosto che a cucinare”.
Difficile, allora, secondo il critico, riconoscere il buono in questa era “se continuiamo a camuffare ogni piatto, non stiamo andando più alla ricerca del buono, ma solo del bello”.
Ci vuole, invece, coerenza per Antonella de Santis del Gambero rosso “sapienti cotture e materie prime di qualità” perché a meno che non si tratti di raccogliere un frutto o un ortaggio e mangiarlo così com’è, il suo essere buono dipenderà necessariamente dall’ingegno umano in cucina “anche una semplice bollitura, se non eseguita correttamente può minare la qualità della materia più eccellente”.
Nella ricerca del buono Stefania Petrotta, organizzatrice di eventi e giornalista enogastronomica , aggiunge, poi, l’elemento evocativo “che non significa necessariamente la cucina della nonna o della mia vita personale, ma di quel valore che nel piatto sappia riportare alle materie prime utilizzate e ai modi di cucinare di un luogo e del suo tempo”, mentre per la penna di Identità golose Clara Minissale sono “i continui impasti tra soddisfazione mentale e fisica” che amalgamandosi tra loro formano la semantica stessa del buon cibo.
Quella stessa che dovrebbe allora coincidere con l’etimologia della critica, dal greco krínein giudicare, scegliere separando “perché chi è chiamato a valutare la bontà di un piatto deve escludere il piacere personale” secondo la direttrice de Il Gusto, Eleonora Cozzella che cerca, allora, di astrarsi da quello che piace al suo palato “per concentrarmi solo sugli aspetti tecnici”. È allora alla freschezza degli ingredienti che si presta attenzione, alle loro cotture o agli impasti, ma “c’è bisogno anche di moltissima esperienza, l’unica che ti consente, poi, di valutare l’armonia e l’equilibrio delle singole componenti messe insieme tra loro”. Solo su queste basi si può parlare di buono “che non si può di certo riassumere in un mi piace o non mi piace perché questa sarebbe solo autoreferenzialità di un gusto personale che non dovrebbe mai appartenere alla critica gastronomica”.
Ciò che è certo, comunque, è che non si può essere dei cultori del cibo solo perché si ama mangiare e la costruzione di una carta dei sapori deve allora saper incrociare anzitutto “la memoria, perché ognuno di noi ha codificato qualcosa fin dai primi giorni di vita riportandolo ad una sensazione riconoscibile o meno di piacevolezza” passando poi per l’esperienza “indispensabile per allenare il palato”. Sono questi gli elementi che se sommati, secondo Fabrizio Carrera direttore di Cronache di Gusto, tracciano il significato stesso di un piatto buono “che deve essere armonioso, sintesi perfetta di equilibrio, sapore e imprinting sensoriale”.
La scienza
Secondo il Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo (ANFOSC) “bisogna affidarsi a livelli di accuratezza e a protocolli definiti quando si prendono in considerazioni alcune caratteristiche del cibo che sono sinonimo di qualità del prodotto stesso. La bontà di un alimento non è assolutamente soggettiva e i responsabili della qualità e della persistenza sono i composti a più alto peso molecolare contenuti nei singoli alimenti”.
Per poter dimostrare che il gusto è strettamente collegato con la presenza, più o meno rilevante, soprattutto di polifenoli, Rubino ha impiegato anni di ricerche, esami e degustazioni individuando così quelle molecole in grado di incidere sulle caratteristiche organolettiche del cibo “e tra queste un ruolo determinate è sicuramente da attribuire ad alcune classi di polifenoli, come i tannini, i flavonoidi e gli acidi fenolici”.
Come si fa allora ad andare sulle tracce di una patata che abbia un contenuto di polifenoli maggiore ad un’altra? “abbiamo riscontrato che la presenza e il numero di queste molecole è strettamente dipendente dalla resa per ettaro, in coltivazioni non intensive i prodotti presentano una maggiore presenza di polifenoli e conseguentemente ciò aumenta anche la loro qualità”.
Le coordinate sembrano allora molto facili pur non essendo degli esperti di chimica, l’importante è dirigersi su un’unica strada maestra: quella del contadino che sa cosa sta facendo.
La ristorazione
E l’imbuto linguistico sembra stringersi e assumere significati talora affini a quelli proposti da Rubino quando si arriva in alcune cucine della ristorazione, dove il buono percepito da chi sta dietro ai fornelli assume forme e sostanze in ogni caso diverse a seconda della sensibilità ed esperienza personale.
Così per l’ultimo dei monsù napoletani, Antonio Tubelli la ricerca del buono passa necessariamente dalla ricerca della persona che coltiva la materia prima o la alleva: “parte dall’origine, da dove se no? La responsabilità del buono dipende da chi coltivava e dall’intensità del rapporto che ha con la sua terra”.
Un legame difficile da stringere oggi secondo Tubelli “visto che la figura dell’ortolano è stata sostituita da quella del generico contadino” con quel lavoro certosino del primo, che curava pochi prodotti facendosi custode della loro qualità, soppiantato, sul finire della Seconda guerra mondiale, da quella del contadino, intento, tra maggiori derrate a una genericità di coltivazione.
È qui allora che il suo monito si fa perentorio, “dinanzi a una cassetta di melanzane che sembra essere appena uscita da un lustrascarpe, diffidate anche se è di un contadino” e in una disamina appassionata osserva che è proprio a partire da quella cassetta che nelle sale dei ristoranti finanche alle tavole della domenica in famiglia che si è generata una confusione tra quello che è la piacevolezza e quello che è il buono. Un indottrinamento sensoriale distante dalle reali coordinate del gusto, camuffato dall’eccessiva manipolazione in cucina “e anche da un’estetica capace con i propri espedienti di farci scordare la povertà gustativa di ciò che ci propone”.
Se per Tubelli il buono sta, allora, tutto nell’origine, è, invece nella “sinfonia degli elementi messi insieme con criterio, ordine, studio, tecnica e precisione che si genera il buono in un piatto” secondo Francesco Sposito, due stelle Michelin per il suo ristorante Taverna Estia in provincia di Napoli, a Brusciano “non basta una singola materia prima, ma è la trasformazione e la commistione con le altre, che creano un’orchestra”.
Eppure, trovare la giusta melodia non è sempre così semplice “la cosa più difficile per me è fare la spesa” dice Nino Di Costanzo, che nel suo Danì Maison ad Ischia, celebra il ruolo attivo e centrale delle singole materie prime “ci vuole rispetto quando si utilizzano e bisogna partire sempre da un concetto”.
Così il buono per il due stelle Michelin sta “in un insieme di attenzioni che si trasferiscono poi al gusto di quel piatto”. La chiamano eccellenza “ma bisogna andare dal piccolo produttore, conoscere il casaro e svegliarsi al mattino presto per scegliere le verdure migliori. Non si può fare la spesa su un catalogo e ricercare l’eccellenza su un listino”.
Dalle parole della critica e della ristorazione sembra proprio che il “gioco” stia allora tutto nel cambiare approccio al cibo, smetterla solo di guardarlo e istallare un sapere concreto, privo di suggestioni. “Per farlo è, però, necessario cogliere il suo reale livello qualitativo” continua Rubino e, allora, seppur in assenza di un vocabolario completo fornito dalla scienza, sembrano, però, non esserci dubbi anche per la critica e la ristorazione, che alla lettera M ci sia indiscutibilmente una “materia prima di qualità” per poter riconoscere il buono e i cui parametri ben potrebbero iniziare ad essere scritti ed utilizzati attraverso gli studi e i risultati portati avanti da Anfosc.