di Titti Casiello
“Prima di mangiare, un cibo noi lo vediamo, mangiamo con gli occhi e scegliamo con gli occhi. Dunque, abbiamo bisogno di occhi nuovi, ma anche di un binocolo per guardare lontano e di un microscopio per guardare da vicino” è così che Roberto Rubino, Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo (ANFOSC) apre a Gazebo di Pignola (Pz) il corso di analisi sensoriale sul cibo.
Se siamo ciò che mangiamo, dobbiamo anche sapere quello che mangiamo. Ed è, allora, quanto si propone di sviscerare Rubino in un percorso di formazione strutturato in quattro moduli ognuno con un focus diverso, dalla carne, ai legumi passando per il formaggio e il grano.
Non un apprendimento sterile e nozionistico, ma un processo che miri a cambiare prospettiva davanti al banco frigo e a costruire una nuova visione rispetto alle informazioni che ci arrivano dal mercato.
“Se pensiamo all’analisi del sangue l’obiettivo è capire qual è il nostro stato di salute e l’obiettivo del cibo dovrebbe essere molto simile” spiega Rubino, una necessità che dovrebbe essere di tutti, quella di saper riconoscere un cibo e sceglierlo per il suo stato di salute “o meglio se il rapporto prezzo/qualità è corretto”.
Il corso di analisi sensoriale si propone, allora, di costruire un nuovo ed indispensabile abecedario del cibo “perché la corretta nutrizione è primaria quanto l’uso della parola”.
E allora prima ancora di leggere il retro di una confezione o l’ultima recensione di un piatto dovremo avere noi stessi gli strumenti per valutare il suo livello qualitativo. Una chiamata all’azione, dunque, per salvaguardare quella risorsa che è insieme identità, cultura e sostenibilità: il cibo.
Per farlo Rubino propone il metodo più semplice per imparare, attraverso il confronto tra il cibo più scadente e il più buono.
“Lo scarto è dimostrare come la qualità sia strettamente dipendente da un numero di fattori che dipendono principalmente dal tipo di allevamento scelto, se intensivo o al pascolo, nel caso degli animali o dalla resa per ettaro dei campi nel caso degli ortaggi, dei legumi o dei cereali”.
La sfida è tradurre questa idea in un linguaggio accessibile e soprattutto riconoscibile dal consumatore, affidando a lui il riconoscimento del “piacere” del cibo sulla base di nuove nozioni da considerare a tavola.
L’abecedario della carne
Perché l’Angus costa di più? Quanto grasso deve avere una carne per essere considerata buona? Queste ed altre le domande che ci poniamo al banco macelleria “ma sono proprio le informazioni dalle quali partiamo ad essere distorte” precisa Rubino mentre sul tavolo figurano cinque diversi tipi di carne.
E ne viene fuori durante la degustazione alla cieca un’opinione non condivisa da tutti, ad esempio, sulla carne di Kobe per alcuni considerata molto buona per altri discreta.
“Anzitutto non esiste la razza perfetta, ma solo l’animale che ha mangiato meglio, una podolica da pascolo, alimentata solo con erba, lontana da paglia e soprattutto dagli allevamenti intensivi, ha sapore e gusto da vendere”.
Seguendo il ragionamento del Presidente dell’Anfosc, la razza di Kobe, quindi, non è buona in quanto tale, ma solo se alimentata bene e dare per scontato che alcune razze, a dispetto di altre, siano precursori sani del gusto, potrebbe rinchiudere il nostro palato in uno sgabuzzino gastronomico.
“Il prosciutto iberico, ad esempio, non è buono in quanto tale, è buono solo se quell’animale è stato alimentato correttamente” – ricordando, poi, come questo cult della gastronomia spagnola contenga nella sua carne pochissimo grasso.
Ed è proprio il grasso il punto sul quale soffermarsi. I partecipanti al corso che avevano considerato buona la carne di Kobe avevano, infatti, apprezzato il suo livello di grassezza, senza prendere in considerazione altri aspetti organolettici.
“Il grasso, però, non ha sapore né odore, è solo una consistenza percepita dal nostro palato che in termini organolettici apporta poco o nulla”. Basti pensare al burro, “un prodotto che contiene almeno l’82% di grasso. Il resto è acqua e alcune tracce di proteine”.
Seguendo la sua tesi, quindi, se il gusto dipendesse dal grasso tutti i panetti dovrebbero essere allora pienamente goduriosi. E, invece, perché il beurre francese d’Échiré è venti spanne sopra a quello del banco frigo nel nostro supermercato di fiducia?
Entrambi sono costituiti, poco più o poco meno, dalla stessa percentuale di grasso. “Perché il grasso è solo un mezzo per trasportare qualcos’altro. Potremo immaginarlo come una locomotiva, ma chi sono i passeggeri nelle carrozze?” È ad altre molecole che il presidente di Anfosc si riferisce, ai polifenoli in particolare. Sono loro, secondo Rubino, i responsabili del gusto, e sempre loro che vengono trasportati, più o meno velocemente, da quel mezzo di trasporto chiamato grasso.
“La qualità dipende da chi trasporti, non da chi è l’autista” e se non ci sono molecole alla prima fermata, mancheranno anche al capolinea. “Una bresaola, non ha neanche un grammo di grasso, eppure esistono delle bresaole che hanno sapore da vendere”.
Una degustazione all’insegna degli stereotipi da scardinare
Questi, ed altri preconcetti, sono stati scardinati nel corso della serata. Scrivendo così le prime lettere di un vocabolario che dovremo imparare a leggere “e che parte, nel caso delle carni sempre dall’alimentazione del bestiame”. A ben pensarci tutto ciò sembra trovare una sua logica anche nello stesso Disciplinare di produzione della carne di Kobe nel quale si parla solo di alimentazione alla stalla con mangimi e paglia o al massimo con foraggi di scarso livello. “Gli scienziati spagnoli e giapponesi giustificano la presunta qualità di queste carni affermando che si ha un alto livello di acido oleico o di grassi insaturi. Ma la complessità non può essere spiegata solo dal un grasso insaturo, che al massimo contribuisce a qualche nota odorosa. Il gusto dipende dai polifenoli e anche dai lipidi, anzi da un numero elevato di lipidi che legandosi ai polifenoli danno gusto e soprattutto quella persistenza che ci fa esclamare: questo è una carne!”