UN MODELLO PRODUTTIVO CHE PERMETTE DI SCEGLIERE IL LIVELLO QUALITATIVO DESIDERATO DELLA MATERIA PRIMA

Roberto Rubino, Anfosc, Italia

Se la materia prima non è tutta uguale

L’agricoltura vive da alcuni decenni in una costante situazione paradossale. Da una parte, se ne esalta il ruolo, la materia prima viene costantemente elogiata e la gastronomia non fa altro che parlare di legame con il territorio, di chilometro zero, di prodotto unico e inimitabile. Dall’altra però, fatto salvo il mondo del vino e delle uve, il prezzo delle materie prime è unico, mondiale, esiste la borsa merci, localizzata non si sa dove. Tutto è uguale e, se così è, il consumatore compra quello che costa poco.  Facile immaginare gli effetti di questo modello: chi fa qualità non riceve un prezzo giusto, mentre chi produce mediocrità viene premiato con lo stesso prezzo.
Se fosse vero, se in effetti la materia prima è tutta uguale, niente da dire, è giusto andare avanti con questo modello, che privilegia le grandi aziende, chi può fare investimenti enormi per poter produrre sempre di più, abbassando in tal modo i costi. Ma sappiamo che così non è. Basta guardare e poi gustare un burro da pascolo ed uno da stalla. Il primo è giallo, ha profumi erbacei e un sapore lungo e pieno, il secondo è bianco, non ha odore né sapore. Ma la quasi totalità degli uomini di scienza ci dice e scrive che l’intensivo è il sistema più efficiente e che c’è una relazione positiva fra quantità e qualità, gli stessi produttori pretendono un prezzo unico per tutti, la stampa si limita a parlare di chilometro zero, tanto che tutta l’attenzione dei gastronomi viene spostata sulla parte finale della filiera, quella industriale: latte crudo, i fermenti, forno a legna, lievito madre, pasta trafilata in bronzo e essiccata lentamente, luppoli e lievito nella birra.

Ma se così è, se cioè tutto il mondo che ruota intorno all’agricoltura va in un’unica direzione, come si fa ad andare in quella opposta? Che strumenti conoscitivi abbiamo? Personalmente non lo so, posso solo dire come e cosa ho fatto io. Ho iniziato a fare la cosa che, all’inizio mi sembrava la più inutile: degustare il prodotto. Certo, tutti degustano ma, al solito, dipende dagli obiettivi che ciascuno si pone al momento di valutare un alimento. Se ci limitiamo a fare una foto dei sentori e degli odori, non avremo altro che una foto, un reparto di un’analisi i cui risultati nessuno saprà leggere. A cosa mi serve sapere che quel formaggio o quella birra hanno un sapore erbaceo o fruttato se non ne so spiegare la diversità?  In che cosa sono diversi? Quali molecole fanno la differenza e da cosa dipende il loro contenuto nella materia prima?

Perché queste domande? Perché se noi non sappiamo leggere la qualità al momento della degustazione, se non riusciamo a distinguere le molecole interessate e che determinano le diverse sensazioni che abbiamo in bocca e, infine, se non siamo in condizioni di sapere quali fattori intervengono per determinare il livello di quelle molecole, allora la degustazione resta un esercizio interessante ma inutile. Affinché il prodotto sia ripetibile, affinché ci siano le condizioni per programmare a tavolino il livello qualitativo del prodotto che vogliano coltivare, noi dobbiamo conoscere molecole e fattori che intervengono e che ne sono responsabili. Ed è quello che ho fatto, indubbiamente aiutato dalla possibilità di vedere poi le analisi chimiche di quel prodotto e di poter consultare la bibliografia disponibile. Ho testato il metodo di degustazione con i formaggi e poi sono passato agli altri prodotti. Ho assaggiato decine di paste e di birre per provare a separare il ruolo della materia prima da quello della tecnica di produzione. E così con la carne, l’olio, la pizza, il pane.

Per comprendere meglio questo approccio, trovo esplicativo il caso della birra. In questa bevanda si riesce con relativa semplicità a separare gli elementi che fanno la specificità di quella birra, le molecole interessate e i fattori implicati. Appena ci avviciniamo al bicchiere, ci viene incontro una nuvola più o meno densa di odori. Sappiamo che si tratta di molecole odorose, di monoterpeni e sequiterpeni. Che i responsabili sono i lieviti, che il birraio immette nel mosto a seconda della sua ricetta; in qualche caso il luppolo. A questo punto iniziamo a bere. L’impatto può essere più o meno intenso a seconda del tipo di malto, che influisce anche sul colore. Sentiamo comunque l’alcool e gli zuccheri, che servono a bilanciare la forza dell’alcool. Poi spesso arriva subito la saliva e l’amaro del luppolo. Molte birre terminano con note dolci e in questo caso parliamo di destrine. I luppoli sono responsabili dell’amaro, quindi iso-alfa-acidi, e di alcune note odorose. Non abbiamo ancora incontrato i fenoli, che nel vino sono considerati come responsabili del corpo e dell’eleganza. Nella birra, gli studiosi danno molta importanza ai fenoli perché, essendo fortemente antiossidanti, possono accreditare la birra come una bevanda che può dare un forte contributo alla protezione cardiovascolare. E il corpo? I birrai e gli stessi studiosi non danno molta importanza ai fenoli come responsabili del corpo anzi, stabilizzano i tannini con il PVPP (polivinilpirrolidone) perché i fenoli, polimerizzando, creano problemi alla limpidezza della birra.

Quindi la complessità, la specificità della birra dipendono dai lieviti, dai luppoli e dall’acqua. E l’orzo, che ne è il costituente principale? I birrai ne tengono poco conto. Hanno selezionato e scelto 4-5 varietà e pretendono solo che la granulometria sia quella giusta. Per cui il prezzo dell’orzo è unico per tutti e non si parla mai di qualità.

Conclusione: la birra si fa a partire dall’orzo ma questa materia prima conta meno che niente. E lo stesso vale per il grano, per il latte, la carne ecc.

Ma se la materia prima non è tutta uguale, chi determina questa differenza e come la misuriamo?

 

Chi sono i protagonisti della diversità?

Prima di entrare nel merito delle molecole che entrano in gioco nella formazione della qualità e dei fattori che la determinano, dobbiamo provare a condividere la stessa definizione di qualità. Il consumatore compra un prodotto perché gli piace; non a caso a chi gli chiede una valutazione, risponde semplicemente: è buono; o non è buono. Quindi il cibo è profumo, odore e sapore. È la nostra madeleine, un mezzo che ci dà emozione. Da qualche anno si sta dando molta importanza all’alimentazione come fonte primaria di salute e di prevenzione. Ma questo lo riprenderemo più avanti perché le molecole implicate sono in pratica le stesse responsabili del piacere e del gusto.

Quindi il cibo è odore e sapore.

Sull’odore gli studi sono abbastanza d’accordo nell’indicare nei monoterpeni (aldeidi, chetoni, acidi grassi, alcoli) e nei sequiterpeni i principali responsabili delle note odorose che ci colpiscono quando ci avvinciamo ad un cibo. Sono molecole da 10 a 15 atomi di carbonio e, per questo, volatili.

E poi c’è il sapore. La quasi totalità dei testi su questo argomento (fra gli ultimi Gordon M.Sherpherd, 2012 e Jonathan Silvertown, 2017) parla di 5 sapori: acido, dolce, salato, amaro e umami, l’ultimo sapore scoperto nel 1909 dal giapponese Kikunae Ikeda, professore di chimica all’Università Imperiale di Tokio. Io ho sempre lavorato con i formaggi e questo elenco quasi mai mi permette di raccontare i sapori. Un formaggio equilibrato può essere non salato, non amaro, non dolce e non acido e il risultato finale non è scontato. Perché può essere anonimo, senza sapore e allora dovremmo parlare di insapore, cosa non rara, anzi frequente in molti prodotti provenienti dall’agricoltura intensiva. Quante volte usciamo da ristoranti anche di buon livello con la sensazione di aver partecipato ad un banchetto il cui ospite d’onore era l’insapore. A pensarci bene la conoscenza dell’insapore ci permette di meglio cogliere le sfumature degli altri sapori. Il filosofo F. Jullien, nel suo libro “Elogio dell’insapore” dice che quando i diversi sapori cessano di opporsi gli uni agli altri restano contenuti nella pienezza. Il merito dell’insapore è aprire tutte le possibilità e di farle comunicare. In più “il sapore dell’acqua è insapore ma, in effetti, non è insapore: è il miglior sapore del mondo, e il sapore di qualunque altro alimento non gli è paragonabile. Certamente coloro che sanno apprezzare il sapore degli alimenti sono già rari, ma coloro che sanno apprezzare il sapore dell’acqua lo sono ancora di più”.

Ma quel formaggio può essere anche molto interessante, può avere un gusto e un sapore intenso e non riconducibile ai famosi cinque. Mi è capitato più volte di degustare un formaggio di vacca al pascolo di colore bianco e quasi inodore. Perché in quel periodo di pascolamento le erbe erano praticamente secche, gialle. Mi sarei aspettato un sapore banale o leggero, che scompare in bocca subito, invece no, il corpo, sì quello del vino e della birra, era intenso, forte, lungo. Quindi un formaggio non acido, non salato, non dolce, non amaro, non umami e non insapore può avere una personalità importante perché il corpo è intenso.

Prima difficoltà: non abbiamo termini specifici per definire con chiarezza i sentori che permangono nel palato dopo aver deglutito un alimento.

Seconda difficoltà: quali molecole sono implicate?

Restiamo al formaggio. Questa estate ho fatto un’esperienza interessante. Un allevatore di vacche al pascolo ha aperto un punto vendita di latte e di formaggi in città. Appena me ne sono accorto sono diventato un frequentatore quasi giornaliero. Qualsiasi scusa era buona per passare da quelle parti: ora la ricotta e i formaggi, di un giallo a volte quasi oro, e che dire dei gelati o dei semifreddi. Un giorno, e la cosa si è ripetuta più volte, mi accorgo che non solo il colore non era quello solito, era bianco, ma anche l’odore e il sapore erano latitanti. Mi precipito nel negozio e senza giri di parole chiedo: ma ieri le vacche non erano al pascolo? La signora, che mi conosce bene e sa che non può mentire, ammette candidamente che il giorno prima ha piovuto e che le vacche erano state alimentate alla stalla con fieno e modeste quantità di mangime. È una conferma ulteriore, caso mai ce ne fosse stato bisogno, che la qualità dipende essenzialmente da quello che l’animale mangia.

Ma questo ci permette anche di ragionare su cosa fa la differenza. Partiamo dal burro. Tutti i burri hanno la stessa quantità di grasso:82%. Se quello da pascolo è giallo ed ha un profumo ed un sapore intensi, mentre quello da stalla è bianco e con un aroma modesto e se tutti e due hanno la stessa quantità di grasso, anche se fatti dallo stesso casaro e il latte proviene dagli stessi animali, allora vorrà dire che il grasso non ha nessun ruolo nella formazione dell’aroma. Ma il burro non contiene proteina, se non in quantità impercettibile. Quindi, nemmeno la caseina influenza l’aroma. Lo stesso vale per le siero-proteine, perché le ricotte, ancora meglio del burro, evidenziano in maniera indiscutibile la grande differenza di sapore e odore.

 Dell’odore ho già detto e parliamo di sostanze volatili, i terpeni, del sapore, l’unica ipotesi plausibile, a questo punto, sono i fenoli. Non c’è altro, se non con altre funzioni e in quantità ancora più basse, che ci possa permettere di spiegare la complessità di un alimento. E se questo vale per il vino e per il latte, deve valere per tutti gli altri alimenti.

Abbiamo già visto che sul vino l’accordo è unanime. Sul resto c’è anche l’unanimità, ma nel rifiutare questa ipotesi. O meglio, chi li studia lo fa solo perché le proprietà antiossidanti di questi composti permettono agli studiosi di sfruttare un periodo storico in cui il cibo viene visto quasi come una medicina, un mezzo per prevenire le malattie, soprattutto quelle più temute come tumori e cardiopatie. Il cibo dovrebbe essere un piacere, anzi tutti ne esaltano gli effetti sulla convivialità, sulla conversazione, sulla socialità, salvo però poi rimarcare sempre che quel particolare alimento fa bene perché ricco di antiossidanti. In effetti un numero vasto di ricerche ha dimostrato, in vitro però, le proprietà antiossidanti dei fenoli. Ma c’è qualcuno che inizia a mettere in discussione quello che sembrava un assioma. Già nel 2006 Giovannini et al. sostenevano che i polifenoli assunti con l’alimentazione si ritrovano solo in parte nel plasma sanguigno e per breve tempo. In pratica, il loro assorbimento è decisamente scarso e ben presto i siti attivi responsabili dell’attività antiossidante vengono neutralizzati da processi enzimatici a livello epatico. Dunque, le note proprietà dei polifenoli non possono spiegare tutti gli effetti biologici da essi mostrati. Alcuni studi suggeriscono la presenza di meccanismi di azione della cellula contro lo stress ossidativo, che potrebbero non dipendere dalle attività riducenti tipiche dell’antiossidante. Tali meccanismi potrebbero riguardare l’interazione con il signaling cellulare e l’influenza sull’espressione genica, con conseguente modulazione di specifiche attività enzimatiche, capaci di guidare la risposta intracellulare contro lo stress ossidativo. Ma non va sottovalutato il fatto che i fenoli si legano alle proteine e che nel latte e nel grano il loro livello è abbastanza elevato. Nel 2017 Yildirim-Elikoglu e Yasar Kemal Erdem sostengono che ”i risultati degli effetti dei polifenoli legati sull’attività antiossidante in letteratura sono spesso contraddittori. Le differenti metodologie applicate da vari autori nel misurare l’attività antiossidante è una delle maggiori cause di conflitto e di discussione. Pertanto si raccomanda di studiare l’attività antiossidante in maniera tale da poter comparare i dati. Inoltre, gli studi in vitro dell’attività antiossidante non possono essere correlati con quelli in vivo e quindi occorre studiare in vivo per poter verificare i benefici dei polifenoli, sebbene sia nota l’interazione fra i polifenoli e le proteine del sangue come fattori di restrizione nella misura dell’attività antiossidante del plasma sanguigno”.

Insomma sull’attività antiossidante in vivo dei polifenoli c’è ancora molto da studiare, ma a noi interessa il loro ruolo nel sapore.

Gordon(2012) scrive che i fenoli (acidi fenolici, flavonoidi, antociani e tannini (nei liquidi) sono ”molecole ad anello composte da sei atomi di carbonio e una grande varietà di gruppi attaccati lateralmente. I diversi gruppi fenolici sono responsabili delle note principali di altrettante erbe e piante aromatiche”. Frasi molto generiche che danno qualche conferma ma che affrontano solo un aspetto marginale della questione” sapore”.

Ribereau-Gayon e coll (2004), riportano che i “composti fenolici giocano un ruolo essenziale nella formazione del sapore dei vini rossi. Essi sono responsabili di certi caratteri gustativi positivi, ma nello stesso tempo di caratteristiche negative poco piacevoli. Il corpo, la struttura, così come la pienezza e la rotondità, sono qualità sensoriali che caratterizzano i grandi vini rossi”.

Nel settore caseario O’Connel e Fox (2001), fra i pochi ad essersi occupati di fenoli, suppongono che, a bassi livelli, i polifenoli possono dare un piacevole nota di dolce, di affumicato o di caramello. È un lavoro del 2001, ma si vede che il problema sapore viene affrontato in maniera superficiale, anche perché gli autori fanno riferimento ad un lavoro di Ramshaw del 1985, quando le apparecchiature analitiche per poterli studiare non erano efficienti, soprattutto se pensiamo che ancora adesso i risultati relativi ai fenoli sono contrastanti e a volte dubbiosi.

Quindi, ad eccezione del vino, il mondo della ricerca non è affatto d’accordo sul ruolo che i fenoli possono avere nella formazione del sapore e, quei pochi che li studiano, lo fanno soltanto perché interessati al ruolo salutistico che possono svolgere nell’alimentazione.  Piazzon et al. (2010) riportano che “la birra può rappresentare una quota importante dell’ingestione di antiossidanti, particolarmente sotto forma di acidi fenolici. Il contributo della birra all’ assunzione di antiossidanti/acidi fenolici può variare molto in relazione al diverso tipo di birra”.

Ricapitolando, l’odore è legato soprattutto ai mono e sequiterpeni, e questo è un tema molto studiato in quasi tutte le materie prime. Il sapore è dovuto ai polifenoli (e in parte ai carotenoidi) ma praticamente su questa tesi nessuno è d’accordo. Mi ricorda un poco l’aforisma di Novalis del soldato che si meravigliava che tutto il battaglione marciasse con il passo opposto al suo.

Ho fatto questa premessa non per fare un excursus sul sapore ma per far notare come non solo a livello scientifico non si abbiano le idee chiare sulla qualità ma anche che, a causa proprio di questa lacuna, l’industria ha imposto al mondo agricolo parametri di qualità che non riguardano l’aroma, ma solo esigenze di lavorazione. La materia prima deve essere uniforme e deve dare il massimo della resa. Ci spieghiamo così l’imposizione e l’accettazione della proteina e del peso specifico nel caso del grano e dell’orzo, della proteina e del grasso nel caso del latte, della resa nel caso della carne e via di seguito. Ma se, come abbiamo visto e come sappiamo, il gusto e il sapore dipendono dai terpeni a dai fenoli, vorrà dire che la attuale qualità degli alimenti è un fatto casuale, avviene ad insaputa del produttore. Aristotele, inizia la Metafisica con un capitolo dal titolo:” La sapienza è conoscenza di cause” e all’interno sostiene che” l’esperienza produce l’arte, l’inesperienza produce il caso”. Non solo, ma il consumatore, fra cui rientrano la stampa, i gastronomi e gli stessi studiosi, non dispongono delle chiavi di lettura della qualità. Come fa un cuoco a scegliere un cibo se non ha gli strumenti conoscitivi necessari per orientare tali scelte?

Se invece spostiamo l’attenzione sui terpeni e sui fenoli e se sappiamo quali fattori intervengono nella loro formazione allora possiamo dire di avere tutte le conoscenze per poter decidere a tavolino, prima ancora di seminare o di avviare un allevamento, il livello qualitativo della materia prima.

 parametri  fattori di qualità

Chi si occupa di agricoltura, chi, per mestiere, produce o utilizza un alimento, la prima cosa a cui dovrebbe essere interessato è il livello qualitativo. Chi produce vino, a prescindere dal vitigno o nell’ambito dello stesso vitigno, sa come organizzare i fattori di produzione per ottenere il livello qualitativo che ha deciso al momento di impiantare il vitigno. E così abbiamo bottiglie di Cabernet da un euro o da mille euro. Niente avviene a caso e salvo cattive annate, tutto è ben gestito. Dato per scontato che la materia prima deve essere ben lavorata, nel mondo del vino tutti danno per accettato che la qualità si fa in vigna e che, se si vogliono raggiungere alti livelli qualitativi, si devono abbassare le rese per ettaro.

Nel resto dell’agricoltura, dal momento che il prezzo della materia prima è unico, vi è la corsa alla produzione. Si dà il premio alla vacca che produce più latte, gli animali più possenti sono indicati come buoni produttori di carne, le rese per ettaro dei cereali, dei legumi, dei fieni devono essere al massimo e se ne va orgogliosi. Tutto questo ha portato ad un appiattimento dei sapori e dei profumi, il pane non ha più odore, le paste hanno tutte lo stesso insapore, la frutta e verdura sono anonimi.

La regola del vino può valere per le altre materie prime? Se diamo per accettato che le regola della natura valgono per tutti e in qualsiasi luogo, allora non ci dovrebbe essere discussione, saremmo di fronte ad un assioma. Ma poiché qualche dato incomincia ad essere evidente e fortemente esplicativo, proviamo a fare il punto della situazione.

Incominciamo dal latte, dove le ricerche sono in fase avanzata e abbastanza complete.

Le note odorose, i terpeni

Gli studi sulle note odorose, sui terpenoidi sono numerosi ed hanno interessato un numero importante di paesi e di sistemi produttivi. Si conoscono le molecole che contribuiscono a formare l’odore dei formaggi e si conoscono anche i fattori che ne determinano il livello quantitativo. Il problema è che le molecole sono centinaia e che la loro soglia di percezione è molto diversa fra di esse e probabilmente anche nell’ambito di una stessa molecola. Diventa così difficile portare tutto a sintesi e rendere esplicativi quei dati. E questo vale sia se si utilizza il tradizionale gas-massa, che non fa altro che rilevare tutte le note odorose presenti nell’alimento, a prescindere dalla soglia di percezione, e per cui il numero è molto alto, sia la gas cromatografia olfattometrica, che permette di rilevare solo le note odorose attive, quelle con una soglia tale da poter essere colte e segnalate da un esperto che si posiziona alla fine della colonna che permette la separazione delle sostanze odorose. In quest’ultimo caso le note sono poche decine, al massimo una trentina ma variabili da formaggio a formaggio. In sostanza, se noi mettiamo a confronto un formaggio prodotto con animali alla stalla e con una razione in cui i concentrati sono oltre la metà e superano la quota erba, con un formaggio prodotto dagli stessi animali ma che hanno pascolato su cotiche con un numero elevato di erbe, in termini numerici la differenza è limitata. È vero che le note sono diverse, ma per ognuna di essa bisognerebbe conoscere il loro ruolo nella formazione dell’aroma, che comunque è noto, e sulla base di questo provare a individuare le relative differenze. Ma è un lavoro difficile, complicato, perché siamo sempre nel numero di poche unità di note che non ci permette di portare a sintesi le differenze che invece sono sostanziali. Possiamo solo dire che quel formaggio ha un estere, un chetone, un alcool che lo caratterizza, ma non che grazie a quell’estere ha un livello qualitativo superiore.

Quindi, i composti volatili, i terpeni, ci permettono di cogliere un aspetto di quel formaggio, ma solo di quello. Difficile arrivare alla regola e, soprattutto, difficile, cogliere il range, la distanza che lo separa da un formaggio analogo ma di un livello qualitativo diverso.

il sapore, I fenoli

A me non risultano studi sulla relazione sapore/fenoli. C’è invece abbastanza bibliografia sulla presenza dei fenoli in vari alimenti: latte, formaggi, carne, birra, cereali, pasta. Tutti, o almeno quelli che risultano a me, hanno due limiti: il metodo di analisi e le motivazioni dello studio.

Il metodo, a detta di molti esperti, dà risultati poco affidabili, soprattutto per quanto riguarda la frazione fissa dei fenoli. La presenza di amminoacidi, di peptidi e di proteine può essere rilevata dagli strumenti e falsare i dati. È pur vero che a volte interessa il confronto fra tesi sperimentali. Quindi, a parità di errore, la differenza potrebbe dare una idea della distanza che può esistere fra modelli e sistemi diversi. Ma in effetti i numeri sono molto diversi da studioso a studioso e si fa fatica a confrontare i dati. Cuchillo et. Al(2009) riportano che i fenoli totali oscillano da 780 mg/l nel latte di capre al pascolo a 50 in quelle alla stalla e che la pastorizzazione può quasi ridurre della metà il loro contenuto. Velázquez et al. (2015) hanno provato a mettere a confronto due metodi di estrazione dei fenoli da una matrice di latte, usando latti di diverse specie. Gli autori ritengono che il metodo sia attendibile e comunque, al di là del livello di precisione, le differenze fra specie sono molto rilevanti: vanno da un minimo di 49 mg ad un massimo di 150, un dato di per sé sufficiente a giustificare l’influenza dei fenoli sul sapore. Cabiddu et al (2016) riportano che i fenoli totali passano da 67 mg/l nel latte di capre alla stalla a 469 se le capre sono al pascolo. Chávez-Servín et al.(2018), nell’ambiente semi-arido del Messico hanno rilevato che la pastorizzazione del latte ne deprime il contenuto di fenoli e che il pascolamento, rispetto al sistema stallino, determina un importante aumento del contenuto dei fenoli.

Nella carne i fenoli sono studiati prevalentemente per il loro effetto antiossidante. La carne contiene ferro, è facilmente soggetta ad ossidazione e i ricercatori pensano di prevenire il problema cercando di elevare il contenuto di fenoli alimentando gli animali con materie prime naturalmente ricche di fenoli. Anche perché danno molta importanza alla reazione di Maillard (Khan et al.,2015), soprattutto se associata alla reazione Strecker (Resconi et al., 2013), in seguito alle quali si formano composti come le pirazine che danno quel caratteristico odore e sapore di tostato alle carni e non solo. Se così fosse, tutte le carni avrebbero almeno l’aroma che queste due reazioni farebbero sviluppare, invece capita spesso che, dopo la cottura, l’insapore sia la principale e unica sensazione che si riesce a percepire. È sempre un problema di precursori, che provengono da quello che l’animale ha mangiato. Una carne può avere sapore o no, ma non sappiamo perché e, soprattutto, non sappiamo cosa dobbiamo misurare per averne contezza.

Raes et al (2003) hanno messo a confronto quattro diverse razze: Belgian Blue, Limousin, Irish e Argentine, rilevando solo i metilfenoli e il contenuto di questi oscillava da 169 mg/kg a 320. Nelle prime due razze era più basso perché gli animali erano alla stalla mentre nelle altre due, al pascolo, il livello era quasi il doppio. Ma nelle conclusioni gli autori scrivono che” queste due razze hanno avuto un flavour intenso a causa delle componenti volatili che erano più elevate”. Quindi fanno riferimento solo ai terpeni e ai fenoli volatili (che sono quelli che spesso danno cattivi odori), non ai fenoli. Keles et al. (2018), hanno rilevato i fenoli nella carne di agnello mettendo a confronto un gruppo alimentato con silo-mais e un altro con insilato di grano saraceno. Quest’ultimo gruppo ha riportato valori del 68% più alti (33,1 mg di acido tannico /kg di carne versus 19,7 mg). Ma gli autori concludono che il grano saraceno non ha effetto sulla qualità della carne e comunque l’aumento dei fenoli permette di promuovere la carne per gli effetti sulla salute umana.

Nei cereali l’approccio è simile: i fenoli vengono studiati per le proprietà antiossidanti e sempre mettendo a confronto varietà o sistemi di molitura. West et al (2013) hanno rilevato che gli acidi fenolici liberi (protocatechine, siringico e ferulico) e quelli legati aumentano nel grano integrale rispetto a quello raffinato.

Uno dei pochi che si è preoccupato di studiare la relazione fra fenoli e sapore è stato Allison Langfried (2013). L’obiettivo della sua ricerca, i cui risultati sono stati presentati nella sua tesi di Master all’Università canadese di Guelf, è stato quello di caratterizzare le proprietà sensoriali di alcuni degli acidi fenolici comunemente presenti nei cereali integrali, per capire come questi potrebbero contribuire al sapore. Utilizzando un panel descrittivo, l’autore ha dimostrato che gli acidi ferulico e vanillico suscitano una combinazione di molteplici attributi sensoriali; acido, amaro e astringente. L'acido vanillico era considerato più acido dell'acido ferulico e l'acido ferulico era percepito come più amaro dell'acido vanillico, mentre non sono state osservate differenze nell'astringenza. Per entrambi gli acidi, l’intensità di percezione è aumentata all’aumentare della concentrazione. Nessuna associazione è stata trovata tra il flusso salivare e la
percezione di acidità, amarezza e astringenza degli acidi fenolici. L’autore ha anche osservato che le proteine della saliva interagiscono poco con i fenoli a basso peso molecolare nella determinazione dell’astringenza.

L’approccio è lo stesso anche per l’orzo. In un lavoro appena pubblicato (2018) Hajji et al. scrivono che “l’orzo integrale ha presentato alti livelli di fenoli totali (si va da 700 mg/100g a oltre 2300) con una forte attività antiossidante. Le differenze rilevate sono dovute alle varietà e anche al metodo di estrazione. La grande variabilità fra le cultivar e il metodo di estrazione possono essere importanti per ottimizzare l’utilizzazione dell’orzo e per ottenere alcuni naturali antiossidanti”. 

L’unico dato interessante e disponibile ci viene dalla Sardegna, ma non è stato ancora pubblicato. Salis, dell’Istituto di ricerca Agris, ha studiato l’effetto di diverse dosi di concimazione sul contenuto di fenoli totali nella pianta intera di orzo. Le differenze così come l’effetto della concimazione sono evidenti: all’aumentare delle dosi si abbassa il contenuto di fenoli.

Complessa e curiosa è la relazione fra orzo e birra. La materia prima della birra è l’orzo, tanto che tutti scrivono che il 70% dei fenoli della birra sono apportati dall’orzo e il resto 30% dai luppoli. Il che significa che non solo l’orzo apporta più del doppio dei luppoli ma che gli studiosi e i birrai hanno cristallizzato questo rapporto come se fosse costante. Posso capire che l’apporto dei luppoli sia sotto controllo, ma dal momento che non si tiene conto dei fenoli dell’orzo, come si fa a capire quale sarà l’apporto della materia prima?
Adrian Foster, in un saggio presentato al primo International brewres Symposium (2002) riporta che da quando i birrai hanno deciso di abbassare il livello di amaro nella birra hanno ridotto la quantità di luppolo da 100 a 50 milligrammi di alfa acidi per litro diminuendo così drasticamente i livelli di polifenoli da 50 a 4 mg/litro. Foster non può non notare il paradosso di un settore che vuole valorizzare la birra puntando sull’attività antiossidante dei fenoli e contemporaneamente le abbassa intenzionalmente. E, aggiungo io, senza tener conto che il 70 % dei fenoli vengono dall’orzo. Foster aggiunge:”l’alta reputazione del vino è anche collegata ai polifenoli sani. La tendenza verso un minore amaro nella birra è in contraddizione con i potenziali vantaggi per la salute dell’utilizzo di più luppolo”. Ma non sarebbe meglio aumentare la quota fenolica puntando su un orzo ben coltivato, con poche concimazioni e basse rese in maniera tale da ottenere livelli fenolici nella quantità voluta?

Nonostante ciò, nella birra si cerca di dare importanza ai fenoli solo per sfruttarne il presupposto ruolo positivo sulla salute umana. Vinson et al. (2003) riportano che “i polifenoli della birra sembrano essere responsabili dell’inibizione dell’arteriosclerosi. Ad alte dosi la birra determina una riduzione del colesterolo e dei trigliceridi”. Ma le prove sono state fatte su un modello animale e non sull’uomo.

Piazzon et al. (2010) hanno studiato i fenoli nella birra, ma sempre facendo un confronto fra le varie birre in commercio. Come se le quantità di fenoli per ciascuna tipologia fossero fisse e in relazione a quella specifica marca. Ma non può essere così, proprio perché la maggior parte dei fenoli derivano dall’orzo il cui contenuto non viene preso in considerazione e può essere molto variabile. Le conclusioni del lavoro sono esplicative di questo approccio:” la birra può rappresentare una parte importante della quota giornaliera di antiossidanti, in particolare sotto forma di acidi fenolici. E tale contributo è in relazione al tipo di birra”.

Il mondo dell’olio fa un po’ storia a sé. Almeno per il momento. Gli altri settori hanno conosciuto una industrializzazione veloce che ha portato a livelli produttivi molto elevati. Quindi, in questo caso, si tratta di ritornare un poco indietro, di quel tanto che permette di recuperare qualità del prodotto e rispetto dell’ambiente. Il mondo dell’olio per secoli ha tramandato le tradizioni limitandosi a poche innovazioni. Quando si è svegliato, negli ultimi due decenni, ha fatto progressi enormi soprattutto puntando sulla tecnica di raccolta e di molitura. La qualità dell’olio è migliorata sensibilmente. Ma l’olivo? Si è puntato sulle varietà, almeno all’inizio. Quando poi si è visto che la domanda era in crescita, sono stati impiantati nuovi oliveti completamente meccanizzati: irrigazione, diserbo, concimazione. Quindi noi adesso abbiamo almeno due grandi modelli produttivi: il tradizionale e il moderno. La ricerca continua a dedicarsi soprattutto alle varietà, alle cultivar più adatte ad un certo ambiente ma l’attenzione resta bassa sugli effetti della tecnica di produzione sulla qualità dell’olio, soprattutto sul ruolo dei fenoli. È noto che questi vengono indicati come responsabili del piccante, tipico soprattutto di alcune varietà, ma ancora troppo poco c’è sulla relazione fra tecnica e fenoli. Tognetti et al. (2007) hanno messo a confronto due varietà, Leccino e Frantoio e tre livelli di irrigazione. I risultati hanno messo in evidenza che le varietà rispondono in maniera diversa all’irrigazione nel senso che la Frantoio non risentiva dell’effetto acqua mentre la Leccino mostrava un calo del contenuto di polifenoli. Gli autori concludono che” il contenuto di polifenoli è stato scarsamente influenzato dal deficit di acqua”.

Resto convinto però che la distanza fra i due sistemi sia talmente alta da non poter non determinare differenze importanti anche e soprattutto nel contenuto di polifenoli.

 In sintesi possiamo dire che:

  • Sull’odore della materia prima e soprattutto dei derivati, c’è un accordo e si continuano a studiare le sostanze volatili a 5 atomi di carbonio, i monoterpeni e i sequiterpeni. Oltre che i carotenoidi;
  • Sul sapore c’è pochissimo, quasi niente. I fenoli ne dovrebbero esserne i principali responsabili ma questi vengono studiati essenzialmente per le loro (supposte) proprietà antiossidanti. Dimostrate solo in vitro.

Io continuo a pensare che la regola della natura, concetrazione/diluizione, tanto ben utilizzata in enologia, valga per tutti e dappertutto. A prescindere dalla razza animale o dalla varietà vegetale. E che il sapore dipenda dai fenoli. Me ne convinco sempre di più ogni volta che assaggio un burro o una ricotta di animali al pascolo. L’odore e, soprattutto, il corpo, la lunghezza, la personalità, possono dipendere solo o soprattutto dalle molecole meno rappresentate: i fenoli. E nel mondo del latte, oltre che di quello del vino, questo livello qualitativo lo puoi ottenere solo se abbassi le produzioni. Per ettaro o per pianta o animale.

 Cosa determina la concentrazione/diluizione?

Naturalmente non c’è mai un solo fattore, ma quello determinante è certamente il livello produttivo. Nel mondo del vino questa regola è conosciuta e rispettata da tutti, tanto è vero che tutti i disciplinari di produzione prevedono un limite produttivo per ettaro. I produttori poi si regolano se distribuire questa produzione su un numero minore o maggiore di piante per ettaro. È il produttore quindi che decide la tecnica culturale avendo presente il limite imposto.

Nel settore latte le ricerche ormai ci dicono che, se alimentiamo gli animali, -che non dimentichiamolo sono dei ruminanti-, con molta erba, la produzione diminuisce, perché lo stomaco non può contenerne più di una certa quantità.  La complessità aromatica poi dipende dalle singole erbe, perché ciascuna apporta un patrimonio di molecole aromatiche e nutrizionali diverse l’insieme delle quali va a costituire e determinare la complessità del latte e dei formaggi. E della carne, ça va sans dire.

Negli altri settori, come abbiamo visto, non ci sono ricerche specifiche, anche se i dati di Salis, a cui abbiamo accennato, vanno nella stessa direzione: all’aumento della quantità corrisponde un abbassamento del contenuto di fenoli e di altre componenti.

Quindi, i presupposti ci sono tutti per poter definire la regola: per aumentare la qualità nutrizionale e aromatica della materia prima occorre abbassarne la produzione.

Se questa è la regola e se nel mondo esistono sistemi che, naturalmente o per forza maggiore, mantengono bassi i livelli produttivi, come li portiamo a valorizzazione se tutto il mondo che ruota intorno, la gastronomia, la ricerca, gli stessi produttori non hanno le chiavi di lettura della qualità e insistono nel mantenere lo stesso approccio o addirittura pretendono il prezzo unico e fisso perché gli dà più sicurezza?

Seguendo queste regole, conoscendo cioè il modo e la tecnica per ottenere il livello qualitativo desiderato, abbiamo pensato di utilizzarle per proporre al mondo della gastronomia, dei produttori e della ricerca un modello di sviluppo, un metodo di produzione che permette di ottenere il livello qualitativo desiderato. In questo modo il produttore potrà ricevere un prezzo giusto e il consumatore sarà contento di pagare un giusto rapporto prezzo/qualità

Noi ci abbiamo provato con il Metodo Nobile®.

Un modello di sviluppo per un’agricoltura di qualità e di sostenibilità

Wendell Barry (2015) nel suo libro, “Mangiare è un atto agricolo”, sostiene che “mangiare è anche e soprattutto un atto agricolo, e implica scelte che spesso vengono delegate in nome della fretta e dell’impossibilità di accesso. La scelta politica di non accettare un cibo industriale, o di ridurne al massimo la sua arroganza nella vita quotidiana, dona una dimensione meno passiva al nostro esistere”. Tutto vero, tutto auspicabile, ma al momento attuale, se la materia prima è una commodity, se il prezzo è drammaticamente unico per tutti, allora vuol dire che, sic stantibus rebus, mangiare resta comunque un atto industriale. Perché è l’industria che decide, in base a parametri tecnologi e industriali, quale materia prima utilizzare e la relazione fra quella materia prima e la qualità è nulla o casuale. Occorre un modello diverso, che basi la sua diversità su un livello qualitativo della materia prima certo, certificabile e credibile.

Se sappiamo quali parametri misurare e i fattori che ne determinano il livello, allora possiamo proporre ai consumatori un prodotto la cui qualità non sarà casuale ma definita e programmata a tavolino. 

Con queste premesse, circa dieci anni fa, abbiamo avviato il modello “Latte Nobile”, un modello che consentiva di ottenere un latte che si discostasse dal panorama attuale, dove tutto è uguale e di modesta qualità, salvo il prezzo, variabile in funzione dell’auto esaltazione di ogni singolo marchio, ma che sapesse offrire al consumatore un latte certamente di qualità superiore. I risultati ci hanno dato ragione. Il consumatore, non tutti naturalmente ma quelli attenti ai profumi ed ai sapori, hanno dimostrato di accettarlo e di ricercarlo. Il vantaggio? I consumatori aspettano quel latte, in cui riconoscono un sapore d’altri tempi, i produttori ricevono un prezzo che è quasi il doppio di quello del mercato. E se la regola vale per tutti, perché non estendere il modello a tutte le materie prime? È esattamente quello che abbiamo fatto. È nato il Metodo Nobile®, il cui messaggio, ben sintetizzato dal nostro designer Enzo Tenore, è: “meglio Me.No”, dove “me.no” diventa un acronimo di Metodo Nobile.

Naturalmente, una cosa è la consapevolezza di una regola, un’altra è trasformare il tutto in un modello di sviluppo. Di modelli implementati negli ultimi decenni e supportati da una montagna di denaro “son piene le fosse”. In fondo se stiamo ancora qui a chiederci cosa fare per lo sviluppo delle aree deboli vuol dire che i soldi non servono o non sono sufficienti per avviare lo sviluppo.

Se l’obiettivo è quello di offrire al consumatore un prodotto il cui livello qualitativo sia certo e certificato, allora il modello da perseguire e da attivare dovrebbe essere il seguente. Per prima cosa si definisce e si mette a punto il disciplinare di produzione, si registra il marchio, poi, i produttori che vogliono aderire si uniscono in Consorzio che deve avere come obiettivo quella della Tutela e valorizzazione del Marchio Me.no e si individua una struttura di certificazione che salvaguardi il consumatore e gli stessi produttori.

Come si fa un disciplinare che riguardi tutte le materie prime? Pensiamo al grano. Si coltiva in tutto il mondo, in aree diverse per orografia e suolo e con centinaia di varietà implicate. I livelli produttivi vanno da una decina di quintali per ettaro a più di cento. Dove porre l’asticella? La questione non è semplice, anzi è complessa, ma non può diventare essa stessa un limite e una condizione per non andare avanti. Abbiamo allora pensato di partire con due opzioni e vincoli.

La prima opzione riguarda l’ambiente e la salute. Non si può continuare ad usare diserbanti che minano la vitalità dei suoli. Quindi, visto che l’obiettivo è quello di ridurre la produzione, è perfettamente inutile inquinare e spendere questi soldi. Li abbiamo semplicemente vietati.

Resta poi la questione di abbassare le produzioni: Di quanto? Se ci fosse una media, nazionale o regionale, sarebbe facile, ma non c’è. Allora abbiamo pensato di indicare dei limiti laddove ci fossero delle medie standard o storiche e invece di lasciare ai produttori la scelta delle tecniche di produzione per portare i livelli produttivi ad almeno il 50% in meno di quelli della zona. Per questo abbiamo limitato al minimo i concimi, soprattutto quelli naturali e ridotto drasticamente l’uso dell’acqua.

Certo non è facile, ma “ogni lunga marcia presuppone un primo passo” e l’importante è partire. In corso d’opera, mano a mano che si vanno acquisendo conoscenza e potenzialità dei diversi ambienti, si potranno ridefinire e migliorare i disciplinari.

Forse, con questo modello, ora Barry avrebbe tutte le ragioni per poter dire: mangiare è un atto agricolo.

A chi giova?

Nel mondo il modello di riferimento è quello intensivo. È quello che detta le regole e che fa cultura. Questo modello ha automaticamente relegato come povero e poco affidabile il modello estensivo, che è presente in tutto il mondo e, in alcune aree, quasi dominante. Il primo è ammirato, osannato, copiato e incentivato; il secondo arranca, cerca di difendersi ma riesce a stento a sopravvivere. E comunque è poco apprezzato a volte dagli stessi produttori. Ma se la qualità dipende dal livello produttivo, appare chiaro ed evidente che è il secondo che rispetta la natura e che è in grado di offrire prodotti eccellenti.

Si parla da anni dei paesi poveri, emergenti, in via di sviluppo. SI sostengono questi paesi con sforzi economici a volte importanti. Ma non si fa un passo avanti. Eppure, se solo riconoscessimo alle loro produzioni il giusto valore e il giusto prezzo, credo che non ci sarebbe bisogno di continuare nella politica dell’elemosina. Addirittura si potrebbe dire che il semplice riconoscimento del loro valore sarebbe di per sé un grande passo culturale e morale.

Quindi i primi a beneficiarne sarebbero questi paesi, dove naturalmente si coltivano materie prime senza interventi chimici e senza forzature.

Ma l’agricoltura dei paesi industrializzati non è tutta uguale. In qualsiasi paese ci sono aree dove i contadini preferiscono o sono obbligati a coltivare con più moderazione. Ma rischiano di scomparire, perché non ricevono un prezzo adeguato.

E, soprattutto, saranno i consumatori a beneficiarne, perché anch’essi non sono tutti uguali. C’è chi non da importanza al cibo, mangia qualsiasi cosa senza chiedersi perché. Ma c’è chi fa del cibo un argomento culturale, un momento di riflessione e di compiacimento. E ormai il cibo costa talmente poco che pagare qualcosa in più non è affatto un peso sul bilancio familiare. E poi il cibo è cultura, viaggio, ricordi.

Solo così possiamo veramente legare il prodotto al territorio, perché quella materia prima non sarà buona perché “mia” o prodotta a Km zero, ma perché fatta bene, nel rispetto del suolo, dell’ambiente e della salute di tutti.

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