Degustazioni

FORMAGGI AL GIRO DI BOA | L’analisi sensoriale #2 : l’odore

L’odore di un formaggio cosa ci racconta? Possiamo risalire all’alimentazione, ai pascoli, alle erbe? E come, in che modo va organizzata la degustazione?

Quando di parla di odore, di aroma, viene facile riandare alle madelaines proustiane, ma noi vogliamo restare sulla prosa, sulle molecole che ne sono responsabili e, soprattutto, sui fattori che ne determinano il contenuto.

Come nel caso del colore, anche sull’odore c’è una condivisione unanime sulle molecole che ne sono responsabili: le componenti volatili, e cioè terpeni, alcoli, chetoni, aldeidi, lattoni, esteri, acidi.

In genere le sostanze volatili non sono libere, tanto che per sentire le note odorose sul vino dobbiamo agitare il bicchiere, ma sono legate ad una zavorra di natura proteica o glucidica.

Quindi, se vogliamo sentir le note che a mano a mano si liberano dobbiamo rompere un pezzo di formaggio.

Per la verità l’intensità e la specificità dell’odore le sentiamo anche a formaggio intero, ma è quando lo spezziamo, lo apriamo non con un coltello a lama ma con un coltello a punta che possiamo sentirne la variabilità e l’intensità.

Ma andiamo con ordine.

Abbiamo già tagliato a metà il formaggio, almeno quelli medio piccoli, per far vedere il colore a coloro che partecipano alla degustazione.

Ora dobbiamo preparare un pezzetto per ciascuno perché possano romperlo e sentire la liberazione delle note odorose.

Per questa funzione, si può tagliare un pezzo, di una decina di grammi, non molto sottile, anzi abbastanza spesso, anche di 1 centimetro, in maniera tale che la superficie che si rompe è abbastanza grande da liberare più note odorose.

Naturalmente l’ideale sarebbe che tutti avessero un pezzo dello stesso formato e peso.

Ora passiamo alla degustazione vera e propria.

Alla rottura del pezzo di formaggio si liberano alcune note.

Spesso c’è una grande discussione sulla natura di queste note. Chi dice, per esempio, fieno, latte, burro e via di seguito.

Io non ho un naso molto sensibile per cui il mio vocabolario è ridotto, però nel tempo mi sono convinto che questo tipo di lettura non ci porta da nessuna parte e non solo perché non c’è mai unanimità, o meglio tutti si accodano al primo che dice: eureka, per non fare la figura di quello che ne capisce poco. Io credo che almeno in questa fase propedeutica, è meglio lasciar perdere e focalizzarci su altri indici, informazioni che ci possono permettere di risalire alle molecole e ai fattori che le determinano.

Anche perché il formaggio, contrariamente al vino che è liquido, libera con più difficoltà le molecole odorose.

E allora io consiglio di focalizzare l’attenzione sull’intensità dell’odore e sulla variabilità. Perché?

Partiamo da un esempio concreto: il caciocavallo.

Uso questo esempio perché è il formaggio che conosco meglio, ma vanno bene tutti.

Se ci riusciamo, proviamo a prendere il migliore e il peggiore o, se vogliamo usare un eufemismo, quello meno buono.

E per essere sicuri che il risultato finale sia quello atteso, dobbiamo prendere un formaggio prodotto con latte di animali al pascolo su cotiche naturali e perenni, che non hanno mangiato concentrati o mangimi, e il cui metodo di produzione non abbia previsto l’uso di fermenti e della pastorizzazione.

Ecco, meglio di così non ci può essere. Il più scadente è facile da trovare: insilati, un rapporto foraggio concentrato 30/70, latte pastorizzato e fermenti.

Quindi, stessa tecnica, anche stesso casaro (noi spesso facciamo queste prove), quello che cambia è solo l’alimentazione.

Bene, ora se mettiamo questi due pezzi di formaggio a confronto notiamo subito che quello di animali al pascolo, a parte il colore, ha un profumo intenso, lungo e anche variabile.

Quello di animali alla stalla ha un leggero sentore di latte, sempre lo stesso a prescindere dall’intensità.

Come misuriamo l’intensità? Con una scala da 1 a 10.

Naturalmente l’intensità è data dal contenuto di tutte quelle molecole odorose presenti nel latte.

E poi c’è la variabilità, che è ancora più importante.

Che intendo per variabilità?

Quando sentiamo l’odore, e questo vale sia per quello che percepiamo attraverso la via nasale che per quella retronasale, spesso, troppo spesso è univoco, monotòno, va diritto senza cambiare percorso.

Oppure, appena spezzi il formaggio, le note che arrivano cambiano, la nuvola si apre e diffonde note diverse in tempi diversi.

Potrà sembrare una inutile elucubrazione ma, almeno a mio parere, la variabilità ci dice molto di più dell’intensità.

Come la misuriamo? Possiamo anche usare una scala da 1 a 3 e cioè nessuna variabilità, leggera, intensa. Ma se siamo molto bravi potremmo allargarla.

E ora vediamo da cosa dipendono l’intensità e la variabilità.

Immagino che abbiate capito che per me la complessità aromatica e nutrizionale di un latte e del formaggio dipende quasi esclusivamente dall’alimentazione degli animali.

Il latte di una donna bianca è uguale a quello di una donna nera, se entrambe mangiamo la stessa razione.

Non c’entra la razza o la varietà vegetale. Ma il discorso sarebbe lungo e l’ho già fatto in altri articoli che si possono trovare su questo sito.

Allora l’intensità dipende dal livello di contenuto dell’insieme delle molecole odorose.

È insomma una questione di quantità totale del contenuto delle molecole.

La variabilità invece dipende dalla diversità delle molecole presenti.

Quindi, se un formaggio ha una variabilità elevata, vorrà dire che non solo il loro contenuto è alto ma che il numero di quelle che superano la soglia di percezione è molto più alto.

Perché? Cosa ci dice una intensità 8 o 2 e una variabilità alta o bassa?

Le molecole volatili sono presenti essenzialmente nell’erba e anche un po’ nei semi, ma in minima parte.

Tralasciamo il ruolo del rumine, perché, come ho già scritto, devi avere dei precursori per formare composti aromatici o volatili.

Non ho trovato molti dati in giro ma in genere il contenuto di ciascuna molecola diminuisce in relazione all’avanzare dello stadio fisiologico della pianta.

Se strappiamo un’erba giovane, molto verde e ricca di acqua, sentiamo un odore abbastanza intenso.

Se strappiamo invece la stessa erba ma secca, non avvertiamo niente. Al massimo sentore di paglia.

Quindi, il valore dell’intensità ci dice che l’animale ha mangiato una determinata quantità di erba, in un determinato periodo dello stadio vegetativo, ma non ci dà informazioni sul tipo di fieno o di pascolo, sulla complessità della loro composizione floristica.

Se vogliamo approfondire dobbiamo scandagliare a fondo la variabilità. Perché?

Ogni erba ha un corredo molecolare diverso, anche molto diverso.

O meglio abbiamo tutti le stesse molecole, ma è un problema di quantità e di soglia.

Ci accorgiamo facilmente che ogni erba di prato ha un profumo diverso, non c’è bisogno di fare analisi chimiche e né di essere uno scienziato.

Quindi, una cosa è che l’animale pascola su un erbaio che ha solo due specie foraggere ed una cosa è se utilizza un pascolo naturale dove le erbe, anche in quello apparentemente più disastrato, si mantengono almeno al di sopra di una trentina, ma possono arrivare anche al centinaio.

Quindi, a parità di erba ingerita, nel primo caso avremo forse lo stesso colore e forse anche la stessa intensità, ma una variabilità molto diversa.

Con l’erbaio la variabilità sarà minima, sentiremo una sola nota che va diritta.

Nel secondo caso avvertiremo una continua evoluzione, perché il peso molecolare delle note odorose è diverso e, quindi, si liberano le note odorose in tempi differenti.

Lo stesso succede con i formaggi prodotti in zone equatoriali. I pascoli hanno sempre una o al massimo due specie diverse di erbe, sono molto gialli ma la variabilità dell’odore è modesta, quasi nulla.

E la tecnica? Come influisce?

La tecnica può far danni e quindi può avere una influenza non da poco.

Mi riferisco a due specifici accorgimenti tecnici: la pastorizzazione o la termizzazione e l’uso dei fermenti.

Il trattamento termico attenua, riduce il contenuto delle singole molecole, quindi può avere influenza sull’intensità.

Se ci accorgiamo che il formaggio è giallo ma con un odore al di sotto di quello che ci aspettiamo, è probabile che il latte sia stato pastorizzato.

I fermenti invece appiattiscono l’aroma perché l’uso di uno o al massimo di 3 ceppi determina automaticamente l’attenuazione della variabilità.

In sostanza ogni ceppo libera enzimi, che vanno a catalizzare sempre le stesse reazioni che portano alla formazione di una nota odorosa.

Ma nel latte crudo i ceppi sono decine, molte decine.

Quindi è chiaro che la complessità che creano decine di ceppi sarà diversa da quella che ne crea qualche unità. E ce ne accorgiamo dalla variabilità, che precipita.

Un formaggio con fermenti non ha variabilità, va diritto, dà sempre le stesse note e, siccome i fermenti in commercio sono sempre gli stessi, tutti i formaggi sono uguali. Altro che legame con il territorio.

Nel prossimo articolo affronteremo il gusto, dove proveremo a rispondere a questa domanda: c’è relazione fra odore e gusto? Non proprio, anzi.

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