Degustazioni, Divulgazione scientifica

5 MITI DA SFATARE SULLA MOZZARELLA

di Titti Casiello 

Come sulla via di Damasco un quadro gastronomico e gustativo fatto di luoghi comuni e di scarse attenzioni è giunto a noi e si è piazzato proprio al centro delle nostre tavole. Il piatto da portata? Eccolo lì, sua maestà la mozzarella: bianca, liscia e grondante. E se vi dicessimo che sono proprio questi gli aggettivi che non fanno buona una mozzarella? Cinque luoghi comuni scardinati da Roberto Rubino, presidente dell’associazione nazionale Formaggi Sotto il Cielo (ANFOSC) da anni intento a raccontare l’autenticità dei prodotti caseari.

 Più è bianca più è buona

 “La più grande beffa che il Diavolo abbia mai fatto al mondo è stata quella di convincere tutti che non esiste.” Se a dirlo era un giovane Kevin Spacey nei “Soliti sospetti” chissà di chi sia stato, invece, lo zampino in quello caseario convincendo tutti che la mozzarella più è bianca e più è buona.

È questa la vera bufala secondo Rubino, perché il bianco di per sé non è un colore, né da un punto di vista scientifico, fisico e neppure ottico.

Eppure siamo portati a credere che un formaggio fresco per essere buono debba necessariamente essere candido.

“Il colore negli alimenti dipende da un protagonista principale: i carotenoidi, con funzione colorante e antiossidante”. Si tratta di molecole che sono contenute principalmente nell’erba. Quella che, appunto, dovrebbero mangiare gli animali da pascolo. E il numero di queste sostanze, in misura maggiore o minore, dipenderebbe, poi, dalla specie vegetale, dalla fertilità del suolo, dall’intensità della luce, dalla latitudine e dall’altitudine.

Si spiega così perché i formaggi di montagna tendano molto spesso a colori gialli, quasi arancioni. “Ma questo vale anche per la mozzarella di bufala che pur non avendo nel suo latte un alto livello di carotenoidi, ne dispone, invece, di flavonoidi” altra molecola responsabile della cromia da trasferire al formaggio “che riceverebbe, quindi, un colore grigiastro”.

L’allerta mentale dovrebbe, allora, attivarsi se ad abbagliarci è, invece, un colore perlato “indice di una produzione intensiva, basata su un’alimentazione del bestiame fatta di soli concentrati, al punto tale da non permettere di rilevare alcuna tonalità”.

 Se ha la goccia è buona

Il nostro svezzamento sensoriale sembra sia stato mal nutrito sin dalle origini. Mozzarelle grondanti mangiate con le mani portano all’immediata convinzione che più è “sbrodolosa” più è buona, tanto che l’operazione di tentare di tagliarla con la forchetta diventa quasi una profanazione.

“Quella goccia, però, non ha nulla a che fare con il gusto, è solo acqua”.

Secondo Rubino, si tratterebbe infatti di “una dose ben gestita di caglio e acqua nella pasta filata” frutto di un’attenta tecnica di produzione. Con  i gesti abili, veloci e sapienti del casaro che mirano ad ottenere un impasto morbido ed elastico così che, una volta lavorato, grondanti pezzate di gocce di acqua vengono acquistate da un ignaro consumatore.

Che l’elasticità in un formaggio fresco trova le sue ragioni, e anche i suoi gusti, di certo non va, però bistrattata, ciò che sottolinea il presidente dell’Anfosc è che, però, “la complessità aromatica e nutrizionale dipende unicamente dalle molecole presenti nel latte, non da quelle dell’acqua in grado, al più di diluire quella complessità”.

No alla pelle rugosa

Tutto si trasforma. Eppure, il primo postulato della legge della conservazione della massa pronunciato da Lavoisier sembra non attecchire quando si discute di mozzarella.

Se la sua pelle si raggrinzisce l’assioma immediato è che non è più buona. “Il suo spessore dipende dalla quantità di sale in essa contenuta, quindi più sale c’è più la pelle, col passar del tempo diventerà rugosa. È l’effetto dell’osmosi salina” che però sembra non incidere in alcun modo sul gusto.

“Se è una mozzarella prodotta da animali da pascolo, continuerà ad essere buona, al massimo potrà essere solo più salata”.

La mozzarella va mangiata in giornata

Una mozzarella di qualità non è come una scarpetta di cenerentola. E il suo sapore non dovrebbe trasformarsi in zucca con una lancetta che segna la mezzanotte.

Rubino ricorda come quella stessa carrozza arrivava nell’800 nelle piazze delle grandi città carica di contenitori pieni di mozzarelle che venivano vendute per giorni. Un’istantanea riprodotta fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando in Italia il grande boom economico favorì, poi, l’invasione della grande distribuzione e con essa dei suoi nuovi messaggi gastronomici.

È tutta una questione di struttura

La sfida tra il morso e la sua soffice elasticità ci vede vincitori soddisfatti in quel candido pezzo di formaggio che cede alla pressione delle mandibole. A quel punto la mente non fa che registrare quanto sia buono. “Ma quell’elasticità, come anche la sua umidità, non interferiscono in alcun modo col gusto, sono solo frutto di una tecnica di produzione”.

Così quel pezzettino identificato come godurioso al palato, potrebbe, secondo Rubino, essere del tutto scadente nel suo gusto, ed essere solo frutto di una tecnica eccelsa.

“La tecnica ci dice solo che il casaro è stato molto bravo, ma l’allevatore potrebbe non esserlo stato altrettanto”. La risposta sta quindi tutta nell’imparare a conoscere il nostro palato, incontrare in lui l’intensità, soffermandoci nel sapore, identificando se è un continuo monotonale o si concede a mutamenti, se svanisce prima ancora di acciuffarlo o sta lì concedendosi in una scia di lunga persistenza.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *